fil(le) rouge
La danza è “Mimetica, magica, incitatrice, costantemente sorretta dalla musica e strettamente connessa alla poesia” - come si legge nell’introduzione Treccani - e si esplica nella leggiadria del movimento e nella flessuosità del corpo. In questa particolare danza in 9 pezzi la protagonista si esprime in una coreografia che modella il tempo e lo spazio.
Fil(le) rouge, il titolo dell’esposizione, è un gioco di parole. Uno sfondo nero come la pece e al centro della scena, protagonista e decisa, si muove morbida una fille, una ragazza, che si dipana tra un’immagine e l’altra come un filo - il fil - quello che lega ogni foto: un intenso vestito rouge, rosso. Ed è proprio il movimento di quest’abito, del quale si riesce quasi a percepire il fruscio, che è in grado di evocare un’atmosfera di illusione tra il conscio e l’inconscio. Il colore della vitalità, della passione, ma anche il colore del fuoco, del sangue e dell'aggressività. Tutti sentimenti acuti che indicano uno stato di eccitazione, ma allo stesso tempo di fierezza e orgoglio.
Guardare queste immagini è come leggere i capitoli di un Cappuccetto rosso moderno nel quale il lupo da cui fugge è il nero profondo che circonda, ma non riesce ad inghiottire, l’eroina. Non le serve il cappuccio per nascondere il volto in questa sorta di fuga senza fine, una lotta fiera, che passa da un riquadro all’altro, mutando la sua posizione, contorcendosi, concedendo spazio all’oscurità per poi riprenderselo. Celebrazione, spiritualità, erotismo. Fuggire dai problemi, affrontare il vuoto. Il movimento nello spazio e la sua sospensione. L’eterna lotta con la quotidianità. Un richiamo alla mente a figure intense come quella della ballerina americana Martha Graham che con il suo corpo esile riusciva a far vibrare le emozioni. Un accenno a figure iconiche dell’arte come la danzatrice Loie Fullerche immortalata in un disegno tutta movimento e colore, da Toulouse Lautrec; ma quel vestito non fa che ricordarmi la Donna inginocchiata con vestito rosso di Egon Schiele, che sembra quasi volersi alzare e intraprendere la stessa danza, quel viso così altèro e quegli occhi pungenti.
La danza che Marco Onofri mette in scena è effimera e raffinata, attuale e primordiale allo stesso tempo è, come dice Nietzsche nel saggio La visione dionisiaca del mondo, un “linguaggio di gesti potenziato” verso l’immaginario traguardo delle nostre sfide quotidiane.
Gaia Conti
followers
Ci sono immagini capaci di cavalcare l’onda della tecnologia senza utilizzarla. Ci sono fotografi professionisti abituati a gestire forme e composizioni affacciandosi senza indugio al più ampio mondo delle idee. Ci sono ragazze che si mostrano senza veli sui social network ignare di chi le osserverà. Ci sono followers che dal proprio dispositivo non risparmiano “mi piace” a corpi nudi che vedono oltre il display. Marco Onofri in questo lavoro racconta dell’epoca in cui viviamo. Lo fa con abilità tecnica e lucidità di pensiero. Le quattordici fotografie che compongono il progetto parlano di chi guarda prima ancora di chi è guardato. Sarebbe un errore pensare che il focus della serie fossero le modelle dai seni scoperti e dalle pose ammiccanti. La sensualità delle “lei” cede il passo ai “loro”. I seguaci. Quelli che osservano, commentano, condividono. Il ragazzo ha la bocca aperta e la mano a coprire parzialmente il volto. Stupore, paura,eccitazione. La madre allatta la propria figlia mentre osserva un seno esibito per narcisismo. Invidia, sdegno, orgoglio. Pose sostenute per mascherare l’imbarazzo. Followers. Il braccio tatuato di una mamma protegge il corpo del figlio che scruta la scena tra la curiosità e la distanza. Il nostro occhio cade su di loro, i seguaci, a discapito delle forme ben esposte delle modelle. Una signora dilata le narici, un uomo si affaccia come se stesse guardando qualcosa di poco interessante. Il corpo nudo della ragazza in primo piano è distesa sul letto di un hotel. Cinque seguaci tengono la scena sotto controllo. L’esile ragazza seduta sul divano guarda nel vuoto, mentre i suoi followers la fissano indossando gli abiti da lavoro. Una salopette, un cappellino, dei pantaloni sporchi di vernice bianca. Un corpo nudo, una posa plastica, l’ambiente caldo di un appartamento, poca luce, quella di un’abat-jour, qualche raggio filtra dalle tende di una finestra. Braccia conserte, mani in tasca, sguardi imbarazzati dei followers di cui osserviamo i dettagli. Un sopracciglio alzato, la t-shirt che stringe la pancia rigonfia. Una seguace vestita con pochi indumenti ma coperta nelle parti intime. C’è chisi prende un caffè. Chi invece si abbassa i pantaloni. Tutto in uno spazio ristretto. Followers e following. Le luci radenti, teatrali, sottolineano i particolari. Corpi sudati e imbarazzo negli occhi dei seguaci, disinvoltura nelle modelle indagate da pochi centimetri di distanza. Uomini che guardano donne. Donne che guardano donne. Un cane. Un uomo osservato da tre persone. Un bambino osserva il corpo prosperoso della modella con stupore e desiderio di racconto. Dagli 8 ai 74 anni i followers scelti da Onofri. Una decisione non facile da prendere quella di accettare l’invito del fotografo, guardare un corpo nudo sotto lo sguardo tecnologico di una macchina, quella fotografica,che congela senza apparente giudizio, favorendo però la critica di coloro che osserveranno. La modella fuma con l’aria di chi la sa lunga. Al suo fianco una donna incinta, un’altra guarda il fidanzato con sguardo di sfida misto a gelosia, poi c’è anche lui, Marco, il fotografo, che entra in scena alla Hitchcock, primo tra i seguaci. Una donna a terra simula un orgasmo, tredici followers la guardano immobili. Dal monitor alla realtà. Il contenitore cambia il contenuto. L’eccitazione lascia il posto all’imbarazzo, tutto mascherato da posture sostenute e sguardi indagatori. Questa serie fotografica di Onofri parla di quello che manca, il filtro, lo schermo, il social network. Quello che rimane è la relazione diretta, la fragilità dell’essere umano, la messa in crisi di certi atteggiamenti che si appoggiano a vane certezze. Poi il web, le abitudini digitali, le conseguenze nel mondo reale. La filosofia, la sociologia, l’antropologia, la fotografia. Quest’ultima più di altre discipline riesce a dare forma all’informe dei nostri tempi, a solidificare l’inconsistenza di questi anni. Le immagini di Onofri rimangono classiche nella composizione, di una luminosità caravaggesca, i luoghi lasciano trasparire l’amore del fotografo per le opere di Gregory Crewdson. Ma qui non è il cinema a farla da padrone, bensì il web e la ritualità che induce. Il mezzo fotografico continua a rimanere uguale a se stesso nonostante la profonda diversità delle immagini che produce. L’atteggiamento suggerito dall’uso delle tecnologie diviene il vero oggetto d’indagine.
Luca Panaro
Luca Panaro
Amo fare ritratti, incontrare le persone, per questo mi sono avvicinato alla fotografia. Anni fa sono stato in Myanmar ( Birmania) visitandola dal sud al nord. Ho deciso di imparare 12 frasi per poter accennare un discorso con le persone che incontravo. Ho fotografato così 140 persone, iniziando con un semplice “ciao” ( BING LA BA ) per poi presentarmi con il mio nome, chiedere il nome e di fare una fotografia in posa, nel luogo dove li incontravo. ( MELAME’ PELACOLADALE’ ). Con un “CANALI” e “PIOMBA” chiedevo di stare rilassati e fare un leggero sorriso.
Chiaramente loro inizavano stupiti a parlarmi senza che io capissi nulla, soddisfatto del loro stupore ed interesse. E’ un semplice lavoro sull’incontro, sulla voglia di sorridersi e fare una fotografia senza rubare lo scatto come spesso noi fotografi facciamo, chiamandolo reportage.
Chiaramente loro inizavano stupiti a parlarmi senza che io capissi nulla, soddisfatto del loro stupore ed interesse. E’ un semplice lavoro sull’incontro, sulla voglia di sorridersi e fare una fotografia senza rubare lo scatto come spesso noi fotografi facciamo, chiamandolo reportage.
Marconofri S.A.S. di Marco Onofri
P.IVA IT04750150403
© Marconofri 2024 • All rights reserved
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